di William Shakespeare
traduzione Alessandro Serpieri 
regia Ninni Bruschetta
con Totò Onnis (Marc’Antonio), Marina Sorrenti (Cleopatra al Teatro Valle), Alessia Innocenti (Cleopatra Studio n°1 Argot Teatro), Giovanni Moschella (Domizio Enobarbo), Edoardo Sylos Labini (Clown), Daria Panettieri (Carmiana), Federigo Ceci (Cesare Ottaviano), Maurizio Puglisi (Sesto Pompeo), Eleonora Vanni (Ottavia)
Musiche originali composte ed eseguite dal vivo dai Dounia: Giovanni Arena, Vincenzo Gangi, Riccardo Gerbino, Faisal Taher
scene Mariella Bellantone 
costumi Gabriela Eleonori 
direttore tecnico Giuseppe Ardizzone 
aiuto regista Roberto Zorn Bonaventura 
aiuto scenografo Paolo Attardo 
foto di scena Lorenzo Castore
produzione (2001)


Note di regia

Si racconta che Shakespeare fosse un attore, in effetti, altro non avrebbe potuto essere, proprio perché egli “serve” a se stesso e ai suoi colleghi, personaggi viventi, che esigono l’umiltà e l’azzeramento, il “non essere” altro che il personaggio.
Le sue storie vengono a noi e ci penetrano come un insegnamento, perché sono storie universali nella loro sorprendente semplicità. Un uomo ama una donna.
Lei è Cleopatra, nata per essere amata, colei “che trasformando il difetto in perfezione – rimasta senza fiato, seduce”. Antonio è il più grande soldato del mondo,ma lei lo ridurrà a nulla, lo venderà a Cesare.
“La strega” vuole il suo potere, ma quando lui sarà morto scoprirà di amarlo, o forse capirà semplicemente che il suo gioco crudele è finito per sempre, e si ucciderà.
Quanto è vero tutto ciò? O viceversa, quante volte abbiamo visto crollare un uomo tra le braccia di una donna? La figura femminile, del resto, a dispetto di certe interpretazioni allegre (a mio parere) che riconoscono in Shakespeare un misogino, è qui esaltata dalla funzione sacerdotale della stessa Cleopatra, che era sacerdotessa di Iside, e essendo anche l’ultimo, forse già corrotto, baluardo della Teocrazia Faraonica, ne rappresentava direttamente l’esistenza in terra; in breve Cleopatra era Iside stessa.
Forse, come la Terra con Urano, è Cleopatra che genera Antonio e il loro stesso amore.
Sembra che questo testo inizi dalla fine, cioè dalla morte di Cleopatra, che, come Shakespeare ha già chiarito in “Amleto”, non è altro che la fine di un sogno, che in più si riproduce senza soluzione di continuità. E dall’attimo della sua morte, ella riprende a sognarsi, conducendo per mano il suo Antonio e la sua storia. Il generale, il grande soldato, è solo un burattino manovrato dalla seduzione di una donna “dalla fronte scura”. Lei domina, nel bene e nel male, l’andamento delle cose. Naturalmente, per sostenere la storia, Shakespeare non si lascia sfuggire la motivazione più elevata: la morte di Cleopatra chiude la tradizione Egizia trasferendo nelle mani di Ottaviano la ricostruzione dell’ordine cosmico in terra, unica e tradizionale ragione dell’imperialismo antico. Ma, nello stesso tempo, egli scende, con maestria narrativa, a rappresentare il quotidiano dominio di Cleopatra, in quanto donna, su Antonio, uomo.
Mi è capitato alcune volte, anche nella vita professionale, di trovarmi al centro di episodi di questo tipo, e anche di capitare sulla strada di qualcuno che avesse perso la testa per amore, e anche soltanto per un’idea dell’amore. Sono situazioni inquietanti in cui ciò che più ti turba è il vedere proprio l’amore per qualcuno trasformarsi così rapidamente in odio per gli altri.
Non si può ignorare il fatto che Shakespeare scelga spesso l’Italia per raccontare le storie in cui i sentimenti si confondano con i problemi politici e sociali, sfociando, il più delle volte, nella corruzione e nella congiura. In effetti, l’Italia, come dice in un suo felicissimo saggio Raffaele La Capria, è il paese più immoralmente politicizzato del mondo.
“Antonio e Cleopatra” è un testo poco frequentato qui da noi, non so perché e non mi arrischio a cercarne un motivo. Io (sempre di concerto con i miei attori) ho deciso di farlo, sia per proseguire l’indagine sui drammi romani, che mi auguro mi porti fino a Coriolano, ma anche per raccontare una storia d’amore, che magari non sia quel santuario di perfezione che è Romeo e Giulietta e soffra, come questo grande dramma, dell’intrusione malefica dell’inganno, che fa dell’amore l’arma più pericolosa e più crudele.
Un illustre critico, proprio parlando di Cleopatra afferma, senza mezzi termini, che “è impossibile fare una distinzione tra fingere di essere innamorati ed esserlo veramente”.
Certo l’interpretazione più moderna del sentimento, influenzata com’è dalla psicanalisi, non corrisponde in nessun modo a quella sublime contenuta in questo testo. E non mi sembra che il teatro contemporaneo presti amorevole attenzione agli argomenti sentimentali; sembra piuttosto preferire l’evento, lo scandalo, la notizia, l’operazione.
Così, restando nella convinzione che il teatro (al di là della sua funzione rituale) abbia un valore politico, in grado di stimolare e nutrire il pensiero sociale, ho pensato che l’argomento principale da trattare in questo momento, ciò che manca alla base e alla complessità, velocissima e dirompente di questa società, sia un po’ d’amore.
Del resto tutti coloro che si occupano di teatro in Italia oggi sanno che il sistema influenza il nostro teatro da più di trent’anni, guarda al Teatro come se fosse un giocattolo per pochi eletti (chissà perché eletti?), i cosiddetti addetti ai lavori, quelli che capiscono tutto anche quando non si capisce niente.
Non sarebbe più opportuno tornare alla tradizione, riconoscere nel pubblico l’unico vero “cliente” (oggi si direbbe così) del nostro lavoro, l’unico interlocutore dei nostri discorsi?
È evidente che oggi fare teatro può essere ritenuto pericoloso; raccontare i sentimenti, le idee, il pensiero, le opinioni, senza girarci intorno, senza mediazioni virtuali, è senz’altro fuori moda.
Così si predilige la convenzione in luogo della tradizione, il buffone al giullare, la forma al contenuto e persino la viltà al coraggio.
Tutto ciò Shakespeare sapeva bene già prima che accadesse, perché è nella grandezza del saggio conoscere il presente nell’equilibrio tra passato e futuro.
I suoi testi sono universali perché si limitano a dire la verità. E questa verità si rappresenta oggi in un mondo e soprattutto in una cultura dominata dalla menzogna che, naturalmente, le rimane ostile.
Ho voluto dire queste cose nella presentazione di “Antonio e Cleopatra” sia per sfuggire all’imbarazzo di presentare uno spettacolo che, per sua natura, ha ragione di esistere sul palcoscenico, sia perché altrove non è possibile parlare di teatro: i media non diffondono notizie sul teatro, tanto meno opinioni e riflessioni, quindi la pagina di un programma di sala è uno degli ultimi “luoghi” in cui si possa parlare ancora di Teatro.
Ninni Bruschetta


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