di Claudio Fava 
regia Ninni Bruschetta
co-regia video Massimo Coglitore
con Giovanni Moschella, Totò Onnis, Maurizio Puglisi, Federigo Ceci, David Coco, Ninni Bruschetta, Franco Cicero, Angelo Campolo
musiche composte ed eseguite dal vivo dai Dounia: Giovanni Arena (contrabasso), Vincenzo Gangi (chitarra), Riccardo Gerbino (percussioni), Faisal Taher (voce)
scene Mariella Bellantone
luci Renzo Di Chio
musiche originali Vincenzo Gangi
direttore di scena Laura Giacobbe
regista collaboratore Gabriella Eleonori
aiuto regista Francesca Romana Lovelock 
aiuto scenografo Paolo Attardo
produzione esecutiva video Antonio Di Blasi
fonico di presa diretta Gianluca Costamagna
montaggio video Anthony Mondello
operatore Alessandro Gheza
truccatore Nino Alessi
illustrazione e grafica Mauro Cicarè
edizioni e relazioni esterne Pierfrancesco Giannangeli
produzione (2002)
in collaborazione con Terra di Teatri


Note dell’autore

E se un giorno Caino comprendesse, in un ultimo, definitivo istante di lucidità, d’essere stato solo uno strumento? Che persino l’arte del male, la capacità d’essere signore del destino altrui, di decidere della vita e della morte erano solo un mestiere come tanti?
E se quel giorno Caino decidesse di ribellarsi? Di strapparsi il vestito stretto che la storia gli ha cucito addosso? Se scegliesse di non uccidere Abele condannandolo alla vita, alla quotidiana miseria della vita?
Il nostro Caino è un mafioso. Il più quieto e implacabile dei mafiosi. Capace di dare la morte senza un’oncia di ferocia né di ribrezzo. Capace di colmare la misura tra l’uomo e Dio in quel delirio di onnipotenza che il suo rango gli ha regalato.
Finché, giunto all’età in cui si è uomini, di fronte a un avversario che sembra chiedergli solo di fare presto e bene il mestiere suo, Caino decide di fermarsi. E di attraversare fino in fondo questo dubbio molesto.
Lo farà senza rinnegare: cercando di capire se la sua vita è stata solo l’utile complemento ai destini degli altri: a un padre che gli ha  trasmesso le stimmate del comando mafioso; a un amico che gli ha insegnato affetto ed emulazione; al piccolo circo di sussiegosi uomini d’apparato che di Caino avevano talmente bisogno da ostentarne perfino l’amicizia…
E forse, quando troverà la sua risposta, Caino saprà spezzare il corso della storia.
Claudio Fava

Note di regia

Caino è, lo si voglia o no, il progenitore dell’uomo.
È un nome che è diventato l’essenza stessa del suo significato, è un’idea, forse addirittura un concetto, che non lascia scampo e si afferma sempre, non tanto come fatto (la cui veridicità è superflua), quanto come realtà. E infatti la realtà è che la storia la scrivono i vincitori e il più delle volte chi vince non è esattamente il buono.
Claudio Fava ha questa realtà, la possiede, non banalmente in quanto vittima, ma perché sa porsi dal punto di vista del dubbio e infatti scrive una storia di padri e di figli, come quella di Amleto, di tormento e di delirio, come una tragedia greca. 
Tra gli scrittori che si sono occupati di mafia, Claudio sembrerebbe il più tenero con i mafiosi; non fa allusioni ai fatti, non denuncia lo specifico della mafia, il suo aspetto civile e politico, piuttosto ne affronta l’umanità, o la bestialità che dir si voglia. Si mette, insomma, dal punto di vista migliore, quello dell’altro, da cui si osserva quasi tutto con maggiore chiarezza.
Da quel punto di vista la ragione e il giudizio sono scavalcati da un fine altro, nient’affatto immorale, ma semplicemente inumano. E’ li da dove si può vedere come si possa finalmente morire di dolore al cospetto di ciò che è, ciò che è stato e che sarà, una civiltà in declino.
Questo testo, almeno per me, che voglio metterlo in scena, è esattamente un “punto di vista”. Un luogo caro a chi ama anche il cinema. Ma è anche l’occasione, imperdibile, di lavorare con un autore vivente. La possibilità di mettere in contatto il demiurgo e l’azione che egli muove. Snaturare quella funzione, influenzare le emozioni già scritte, provare e cercare un sentimento comune, chiaro e “traducibile”; come se tutto potesse diventare come una poesia o una parola forte, un sentimento sociale e soprattutto umano.
Mi appresto ad affrontare questa messa in scena con la solita disponibilità che riservo allo spettacolo di impossessarsi di me, ma so già che non cercherò nulla più che il teatro, nel senso più tradizionale del termine, e non sarà certo un appello, né una denuncia, semmai un urlo di dolore, senza compiacimento, senz’amore.
Ninni Bruschetta


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